D. Chi vuole cancellare l’art.18 giura di volere mantenere il divieto di licenziamento per motivi di discriminazione. Non è un punto importante?
R. …e vorremmo vedere che affermassero il contrario!
Se la questione non fosse così importante per milioni di lavoratrici e lavoratori ci verrebbe da parafrasare Fantozzi dicendo loro: “Come siete buoni Voi!”.
Lasciando da parte l’ironia: prima di tutto ricordiamo che l’illegittimità del licenziamento discriminatorio è l’unico caso che ora continua a prevedere come sanzione la reintegrazione obbligatoria del lavoratore in azienda: gli altri due tipi di licenziamento (disciplinare ed economico), a discrezione del giudice, prevedono un indennizzo e solo in alcuni casi il reintegro.
Inoltre non è facile per un lavoratore dimostrare di essere stato vittima di un licenziamento discriminatorio: nelle lettere di licenziamento (i datori di lavoro non sono stupidi) non sono citati elementi da ricollegare a una discriminazione.
Il licenziamenti discriminatori vengono sempre mascherati utilizzando una delle altre tipologie come quelli economici oppure quelli disciplinari.
In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l’arbitrarietà del licenziamento.
Negli ultimi anni i casi di discriminazione giunti in tribunale sono circoscritti a situazioni-limite, in cui la “scorrettezza” della situazione è evidente.
È quanto accaduto a un lavoratore che, chiedendo al proprio datore il pagamento degli straordinari e dei permessi retribuiti, riceveva invece la lettera di licenziamento per riorganizzazione imposta dalla crisi che aveva fatto diminuire gli ordini.
In un altro caso un lavoratore che aveva promosso un’azione legale nei confronti dell’azienda, pubblicando un articolo su un quotidiano locale. L’impresa procede al licenziamento disciplinare, con la motivazione che il dipendente aveva assunto una posizione rigida e polemica nei confronti della società.
In entrambi i casi è stata riconosciuta la discriminazione reintegrando il lavoratore.
Quindi anche se i licenziamenti discriminatori vanno assolutamente vietati ben difficilmente è possibile dimostrare che il licenziamento stesso avviene per questi motivi e quindi il divieto resta uno strumento poco utilizzabile.
D. Secondo il Governo cancellando l’art. 18 qualcuno perderebbe qualcosa (viene detto un privilegio) mentre gli altri (le/i precari) ci guadagnerebbero, e questo non sarebbe un bene?
R. Vorremmo rispondere molto brevemente utilizzando le parole di una giovane donna precaria (partita IVA) in un video prodotto dalla CGIL di Firenze:
“In che modo togliere diritti agli altri migliorerebbe la nostra situazione?
(il video è visibile su http://m.youtube.com/watch?v=2qEhVbE9RJw).
D. Secondo il Presidente del Consiglio l’art. 18 crea aziende i cui lavoratori hanno diritti di serie A (quelli con più di 15 dipendenti, a cui si applica) e aziende con lavoratori di serie B. Non c’è della verità in quello che viene detto?
R. Ci sembra che la responsabilità di questa situazione sia da addebitare non a chi ha dei diritti ma al fatto che da decine di anni aziende e governi vari si sono pervicacemente rifiutati di estendere questi diritto a tutte/i.
E quindi ora si fa esattamente il contrario, si tolgono diritti a tutti, punto e basta!
È una risposta paradossale: come se solo una parte della popolazione avesse di che sfamarsi e, invece di procurare i mezzi per alimentarsi a tutti, la soluzione fosse di toglierli a chi l’ha!