Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare dell’estensione del numero chiuso ai corsi di laurea umanistici. I favorevoli, sia all’interno che all’esterno dell’ateneo, presentano questa misura come uno strumento indispensabile per riqualificare l’università, presupponendo implicitamente che ci sia stato un decadimento del livello.
A parte il continuo definanziamento del sistema universitario, che avviene da anni e che gli atenei accettano passivamente, come se si trattasse di una catastrofe naturale inevitabile, proviamo a considerare altri possibili fattori.
A nostro parere la prima causa della dequalificazione del sistema universitario italiano è stata l’adozione del modello anglosassone: 3+2 col sistema dei crediti. L’università è stata ridotta a una sorta di liceo, con un’ibridazione tra corsi che dovrebbero essere professionalizzanti e corsi che dovrebbero essere propedeutici alla laurea specialistica, il tutto blindato da un numero massimo di pagine da far studiare per ogni esame.
Seconda tappa della dequalificazione, l’istituzione della quota premiale del FFO, basata su criteri variabili, ma tra i quali figura il numero di abbandoni.
Se un ateneo con tanti abbandoni viene penalizzato in termini di finanziamenti, prevarrà l’idea di far passare tutti, o quasi.
Terza tappa: il grande carrozzone di valutazione della qualità degli atenei e della ricerca. I docenti sono valutati sulle pubblicazioni, ma non sulla didattica. Inoltre non esiste nessun serio sistema di rilevazione dell’effettiva presenza del docente a lezione e agli esami, o delle tesi seguite. La didattica viene spesso scaricata alle svariate figure precarie spesso non retribuite che ruotano attorno a quasi tutti i professori.
Tutto questo si è svolto in un alternarsi di mode: prima quella dell’università professionalizzante, che doveva assolutamente formare figure già pronte per le imprese, poi l’università delle abilità trasversali, attenta non solo alla preparazione degli studenti, ma anche alla loro capacità di relazionarsi sul posto di lavoro. In ogni caso l’università vista come un servizio pagato dalla collettività subalterno al mondo imprenditoriale.
L’effetto congiunto di questi elementi è stato una progressiva riduzione della qualità dei corsi di laurea, a cui si è voluto rimediare con un determinato rapporto numerico tra docenti e studenti, la classica foglia di fico; se la didattica si scontra coi limiti strutturale del 3+2 e i docenti si occupano prevalentemente d’altro, non c’è rapporto che tenga.
Come CGIL d’ateneo abbiamo puntualmente denunciato, e ci siamo sempre opposti alle controriforme che hanno funestato l’università pubblica negli ultimi tre decenni.
Il numero chiuso è solo l’ultimo atto di una progressiva negazione del diritto allo studio che, infatti, ha fatto del nostro paese quello con la minore percentuale di laureati a livello europeo, e dei nostri atenei un luogo dove la selezione di classe opera pesantemente nell’estromettere i figli dei lavoratori dipendenti, o dei tanti disoccupati e sotto occupati regalatici dalla grande recessione.
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